Autocertificazione Covid, il Tribunale 'Nessun obbligo di dire verità'
Una sentenza del Tribunale di Milano costituisce un importante precedente in materia anche in considerazione dell’ulteriore motivazione resa dal GUP. Il contributo dell'Avv. Andrea Orabona, Partner dello Studio Legale Orabona.
La Dott.ssa Del Corno - chiamata a pronunciarsi in sede di rito abbreviato sulla configurabilità del delitto di falsità in atto pubblico a seguito di false dichiarazioni rese nell’autocertificazione ai sensi degli artt. 46 e 47 DPR 445/2000 nell’ambito dei controlli sul contenimento del virus da COVID 19 -.
Lo scorso 25 marzo 2021, il Giudice per l’Udienza Preliminare milanese ha pienamente assolto “perché il fatto non sussiste” il 24enne che - fermato durante il primo lockdown per un controllo alla stazione di Milano/Cadorna - aveva intenzionalmente dichiarato il falso nell’autocertificazione, adducendo la sussistenza di “comprovate esigenze lavorative” successivamente smentite da alcune verifiche effettuate dalle Forze dell’Ordine -.
In particolare il G.U.P. di Milano, accogliendo la richiesta di assoluzione del Pubblico Ministero, ha assolto l’imputato dal reato di falsità ideologica del privato in atto pubblico, in quanto “è evidente come non sussista alcun obbligo giuridico, per il privato che si trovi sottoposto a controllo nelle circostanze indicate, di dire la verità sui fatti oggetto dell’autodichiarazione sottoscritta, proprio perché non è rinvenibile nel sistema una norma giuridica sul punto”.
La motivazione resa dal GUP nella propria sentenza di assoluzione, stabilisce che - anche laddove esistesse un obbligo di verità - tale imposizione sarebbe “in palese contrasto con il diritto di difesa del singolo” costituzionalmente tutelato, ovvero, con il principio secondo cui è illegittimo sanzionare penalmente le false dichiarazioni di chi ha scelto di “mentire per non incorrere in sanzioni penali o amministrative”.
Di fatto, con la pronuncia in oggetto, è caduto l’ultimo tabù sul divieto di spostamento in zona rossa - da sempre consentito unicamente da comprovate esigenze lavorative, di salute o necessità - esimendo, di fatto, il privato dall’obbligo di dire la verità nell’autocertificazione, o meglio, legittimando implicitamente il cittadino a dichiarare il falso in assenza di una noma giuridica astrattamente idonea a sanzionare tale tipo di condotta.
Il Tribunale di Milano, Ufficio del Giudice per l’Udienza Preliminare, Dott. Crepaldi, si era già espresso lo scorso 16 novembre 2020 con una pronuncia simile a quella dei giorni scorsi, assolvendo l’imputato dall’accusa del delitto di cui all’art. 76 DPR 445/2000 in relazione all’art. 483 C.p. per aver consegnato ai Carabinieri, nell’ambito dei controlli sul contenimento della diffusione del COVID 19, un’autodichiarazione attestante una circostanza non vera, ovvero, “che si stava recando presso un collega per ritirare dei pezzi di ricambio per caldaie”.
Nelle maglie della sentenza del GUP milanese si legge che esulano dall’ambito di applicazione dell’art. p. e p. ex art. 483 C.p. “le dichiarazioni che non riguardano fatti di cui può essere attestata la verità hic et nunc ma che si rivelino mere manifestazioni di volontà, intenzioni o proposito”, con la conseguenza che la semplice attestazione della propria intenzione (seppur mendace) di recarsi in un determinato luogo non può ricomprendersi nell’ambito applicativo della norma incriminatrice, non rientrando nel novero “dei fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità”.
Tuttavia, alla luce di quanto appena evidenziato, la recente sentenza sembrerebbe compiere un passo ulteriore, escludendo tout court la configurabilità del delitto di cui all’art. 483 C.p. per aver dichiarato il falso nell’autocertificazione richiesta per gli spostamenti in tale specifico momento storico - senza distinguere, contrariamente a quanto avvenuto nella sentenza del 16 novembre 2020, i fatti già verificatisi da quelli costituenti mere intenzioni -.
Senza sottacere come, il diverso G.I.P. presso il Tribunale di Reggio Emilia - chiamato a pronunciarsi nel precedente gennaio 2021 in un caso analogo - abbia addirittura affermato l’illegittimità costituzionale di tutti i DPCM emanati durante il periodo della pandemia, per avere limitato, seppur con alcune eccezioni, la libertà personale degli individui in assenza di un atto motivato dall’Autorità Giudiziaria, come previsto dalla nostra Carta costituzionale.
Secondo il Giudice di Reggio Emilia, i DPCM emanati dal Presidente del Consiglio imporrebbero invero un vero e proprio obbligo di permanenza domiciliare per un indeterminato numero di individui in stridente violazione con l’art. 13 Cost., norma, questa, di rango costituzionale, che affida contrariamente al Parlamento ed all’Autorità Giudiziaria eventuali limitazioni della libertà personale dei cittadini - attraverso una doppia riserva di legge e giurisdizione -.
Così come, secondo il GIP presso il Tribunale di Reggio Emilia, la legittimità dei DPCM non potrebbe fondarsi nemmeno sull’art. 16 Cost. - in quanto nessuna limitazione alla libertà di circolazione potrebbe comunque determinare un obbligo di permanenza domiciliare a carico del cittadino -.
Ed, in proposito, sempre a parere del Giudice presso il Tribunale di Reggio Emilia, appare evidente come la previsione contenuta nel DPCM secondo cui il cittadino non possa recarsi in nessun luogo al di fuori della propria abitazione, costituisca chiaramente una limitazione della libertà personale e non del diritto di circolazione.
Tutte le sentenze menzionate riconoscono l’inviolabilità di alcuni diritti del cittadino, quali il diritto di difesa e di libera circolazione, ivi compresa la loro prevalenza rispetto ai dettami dell’Esecutivo, nonché, fatto ben più importante, l’inopportunità di sottoporre i cittadini ad un processo penale in un momento storico già impresso da assai afflittive restrizioni, vuoi fisiche vuoi economiche, dovute dalla pandemia in atto da Covid-19.
Avv. Andrea Orabona, Partner dello Studio Legale Orabona (in foto)