Diana, 39enne che vive in Gran Bretagna: “Qui c’è scetticismo, ma noi italiani siamo preoccupati”. Tra gli italiani c'è il timore della diffusione del contagio. Il racconto della giovane donna che lavora come medico veterinario. Niente coronavirus, siamo inglesi. Si potrebbe dire parafrasando il titolo di una celebre commedia che poi ha avuto anche una versione cinematografica. Forse i 2000 contagi registrati nella patria della Regina Elisabetta preoccupano più gli italiani che si sono trasferiti per motivi di lavoro o di studio oltre Manica che gli stessi anglofoni. Almeno per ora. E almeno in apparenza. Tra i nostri connazionali ‘espatriati’ c’è una maggiore consapevolezza, forse anche una percezione più spiccata di quanto sia pericoloso il covid-19 grazie ai racconti dei parenti o degli amici che, al telefono o sulle chat di Whatsapp, raccontano loro cosa sta succedendo in Italia. L’elevato numero di contagi e di decessi, la rapidissima diffusione del coronavirus che ha costretto il governo Conte ad adottare misure straordinarie per l’emergenza che sta mettendo a dura prova il nostro sistema sanitario. Misure che l’esecutivo di Boris Johnson considera probabilmente eccessive. “Sono preoccupata“, racconta allo “Sportello dei Diritti” Diana D'Agata, 39 anni, che lavora come medico veterinario. “Qui nel giro di tre giorni i contagi sono aumentati: dai 700 di venerdì 13 marzo ai 2000 di oggi. I casi insomma sono più che triplicati nel giro di 72 ore. Un aumento che segue la diffusione registrata non solo nel nostro Paese, ma anche in Germania, Spagna e Francia. Nonostante ciò, “finora il governo di Boris Johnson non ha preso misure drastiche o straordinarie come in Italia, ma solo provvedimenti precauzionali: consigliano di lavare frequentemente le mani o starnutire all’interno del gomito”. La vita nella patria della regina Elisabetta per il resto prosegue normalmente. “Le scuole e le università sono aperte regolarmente, anche se sono state vietate le gite scolastiche”. Inoltre, è stato disposto “l’autoisolamento per una settimana per chiunque abbia febbre alta e tosse, eventualmente da estendere all’intera famiglia”. E “dopo sette giorni bisogna chiamare il numero dedicato – il 111 – e dunque l’ospedale per valutare il tampone”.Al tempo stesso, dice ancora Diana, “sugli autobus si sta vicini l’uno all’altro“. Dalle sue parole trapela quasi lo sgomento osservando che i modi di vivere nel Regno Unito non sono cambiati nonostante la pandemia. “Non ci sono persone che vanno in giro con la mascherina. Il Governo non ha bloccato i voli per la Cina quando lo ha fatto l’Italia. Fino a tre-quattro giorni fa in aeroporto non ci sono stati controlli, non sono stati controllati nemmeno gli italiani che sono tornati in Gran Bretagna”. Persone che magari potrebbero veicolare il Covid-19 anche oltre Manica. Invece, sottolinea ancora la giovane donna, “c’è stato un assalto ai negozi per acquistare carta igienica e prodotti disinfettanti. Ma finanche all’Università è solo da un paio di giorni che ci hanno raccomandato di lavare più frequentemente le mani. Per il resto i pub sono aperti, le persone vanno a lavorare regolarmente. Qui molti lavori sono a chiamata. Distanza di sicurezza? Gli inglesi non sanno nemmeno cosa sia”, aggiunge con un sorriso amaro. “Le persone si comportano come se non fosse successo niente”. Comportamenti non più consentiti nel nostro Paese ‘a controllo rafforzato’, dove è entrato in vigore il decreto #iorestoacasa. “Soltanto qualcuno, spontaneamente, ha deciso di annullare eventi o congressi”.Tra la comunità di ragazzi italiani che frequenta, evidenzia Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, c’è una certa apprensione: “Siamo più attenti, abbiamo iniziato ad avere i comportamenti che anche in Italia sono stati adottati, a differenza degli inglesi che sono piuttosto scettici. La Brexit e il coronavirus rischiano di essere una combinazione preoccupante”. Diana non si muoverà da Manchester. Né ci pensa a tornare a casa, al Sud, come tanti suoi coetanei hanno fatto.