Poste Centrali di Busto Arsizio, negano fresco e sedia ad anziana signora.
Poste Italiane negano sedia e fresco ad anziana signora
di Gianni Armiraglio
Alle Posta Centrale di Busto Arsizio danno i numeri quando si entra, la gente è talmente indisciplinata che non capisce di dover entrare uno alla volta. Allora Poste Italiane interviene e, al posto di entrare e prendere il proprio numero di precedenza dal solito distributore automatico, ecco apparire una solerte impiegata che prende il numero al vostro posto e ve lo porta all’ingresso, una volta entrati, dopo una cocente fila sotto il sol leone. Perfetto, che bella cosa! Peccato che, come al solito nessuno capisce cosa deve fare, c’è solo un piccolo cartello, nemmeno molto esplicativo, tutti, appena arrivano alla Posta Centrale, entrano normalmente e in buona fede, anche perché, come sempre, la chiarezza non va certo a braccetto con la burocrazia di cui Poste Italiane, come tutte le grandi istituzioni nazionali, sono un esempio. Ormai in tutti gli articoli cito, quando è possibile e pertinente, come data di fondazione della tanto amata Repubblica Italiana, non il 2 giugno del 1946, ma un evento più vicina allo spirito pressappochista e menefreghista italiano, l’8 settembre del 1943 quando l’Italia decise, ma solo lei, che la guerra era finita. Tutti sappiamo come poi andò in realtà a finire. Tornando ai nostri tempi moderni, resta il problema di come far rispettare l’emergenza Covid -19 nell’Ufficio Postale Centrale della sesta città della Lombardia. Tra le idee che sgorgano nel ridente paese, meglio dalla fontana di idee che sgorgano, la sorgente è spontanea la fontana no, bisogna volerla, costruirla e mantenerla che funzioni o no, gli esempi tra Busto, Piazza Vittorio Emanuele “due” e Milano non mancano, l’ideona è di prende un’impiegata, mandarla in giro, possibilmente con faccia stanca e disperata, è più credibile, a portare biglietti, buttar fuori gente, far entrare chi ha la prenotazione, praticamente un 8 settembre postale di tutto rispetto. Al solito “casino” a cui siamo talmente abituati, tanto che molti nemmeno ci fanno più caso, anzi qualcuno, evidentemente affetto dalla Sindrome di Stoccolma ( quella per la quale ci si innamora dei propri rapitori) addirittura si schiera dalla parte di questi sequestratori postali del nostro tempo e delle nostre risorse, si aggiunge anche Anna, un’ arzilla signora di ottant’anni con tanto di accompagnatrice. Ha avuto la malaugurata idea, visto c’era la coda fuori sotto il sole battente, poi in fila nell’atrio, di sedersi timidamente al fresco nella “Sala Consulenze”. Apriti cielo: “ Lei qui non può stare – l’apostrofa una vispa impiegata, immersa nell’aria condizionata del suo “uffici etto” grande e naturalmente vuoto – siamo in emergenza Coronavirus”. Come se non bastasse si intromette anche il “pony express dei biglietti”(il Pony Express era un servizio postale del Farr West americano, con postini a cavallo che correvano in giro a destre e a manca per consegnare la posta), l’impiegata, più che portinaia, portiera, visto che cerca di parare l’inefficienza altrui, di dirigere il traffico, saltellando qua e là. La gente, fiumana inarrestabile, continua ad entrare. Sulla faccia di un muratore grosso e tosto, ancora in abito da lavoro impolverato e con abbronzatura da cantiere, si legge lo sconforto di essere buttato fuori, di nuovo sotto al sole, quando già si stava godendo un barlume di fresco. Non era credibile che anche lui stesse male. La giovin signora, dalla mascherina accattivante e dal passo sicuro: “Scusi dove va, non vede che c’è la fila ?” Si volta e se ne va sculettando con classe, sul tacco dodici, C’è il ragazzo che deve spedire un pacco in Cina, messo a metà tra dentro e fuori, a cui il “pony express dei biglietti” riesce anche a dare una consulenza sulla spedizione, fornendo nastro adesivo per l’imballaggio, tanto cosa ha da fare vista la lentezza e i tempi morti del servizio postale: “Così ci portiamo avanti”. Avanti dove, nel dar corda all’inefficienza generale con l’iniziativa personale. Tutti, aspettano fuori, più o meno in fila, sotto un sole cocente che batte sulla facciata del grande edifico di Poste Italiane. Come in ogni commedia all’italiana non poteva certo mancare il personaggio clou (sarebbe quello che a teatro interviene nel momento più importante), una a noi di Varese Press già nota conoscenza, pensiamo dirigenziale o molto in odore di esserlo, della sede centrale di Poste Italiane, Busto Arsizio. Anche in questa occasione riesce a distinguersi nella sua pur fugace apparizione di deciso supporto al “pony express dei biglietti”, insinuando che se tutti dicessero di non sentirsi bene, sai che bella scusa sarebbe. Alla fine, dopo la solita mezzora circa di attesa facciamo il nostro versamento. “ Come mai sono aperti solo metà degli sportelli?” – chiedo all’impiegata, almeno questa stancamente sorride.“ Non lo chieda a me, non spetta a me darle spiegazioni”. Mi era sfuggito un particolare, è venerdì 31 luglio e le ferie, probabilmente, per alcuni o per molti sono già iniziate. Quasi sei mesi di Covid -19 ci hanno convinto di alcune cose. Primo il telelavoro disorganizzato all’italiana è una mattonata per quelle categorie che lo praticano veramente, per gli altri una scusa per andare avanti a fare meno e in ambiente protetto. Secondo i già lunghi tempi dei burocrati vari si sono ulteriormente allungati. Terzo ma lo sanno questi burocrati del posto fisso che tanti non vanno in vacanza sia per paura del contagio sia, soprattutto, perché “da daneè ghe n’è minga”. Loro invece stipendio pagato, via al più presto dagli uffici, categorie a rischio di contagio, che in questi mesi di emergenza hanno molto lavorato. Una cosa ci sfugge, qualcuno ha fatto quattro conti anche se in Italia ne abbiamo uno solo che conta. Ma se l’accesso ai pubblici uffici è contingentato con l’allungamento dei tempi questi, che già hanno dei tempi di servizio tra i più lunghi del mondo, singolarmente hanno lavorato di più o di meno agli sportelli. Per noi di meno o almeno come prima. Il ragionamento è semplice se in tempi normali servo un tot di persone e in tempo di Coronavirus la metà, lavoro di meno. Questa, di rispettare le norme sul Coronavirus, mi sa tanto di bufala da pubblico impiego, da come viene usata. Certo che lasciare un’anziana ottant’enne fuori al sole e poi negarle di sedersi un attimo in un ufficio deserto, fa presagire brutti tempi per tutti. Si inizia sempre dal poco e sommessamente , la Germania insegna. Chissà come saranno trattati i giovani di oggi, impegnati a far affollamento nei bar, a divertirsi accatastati negli “apericena”, alla ricerca, tra una bevuta e l’altra, di un lavoro che non c’è, una volta diventati vecchi, visto che i soldi stanno finendo e le pensioni anche. Che sostituiscano le case di riposo con campi di concentramento? Intanto il “pony express dei biglietti”, dallo sguardo stanco e triste, continua a cavalcare nella prateria, non deserta ma affollata, dell’inefficienza totale.