La coltivazione domestica di cannabis non è più reato. O forse sì
Firenze, 29 Aprile 2020. Sono state finalmente depositate le motivazioni della sentenza n. 12348/2020 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (udienza del 19.12.2019) con la quale si è avuto il coraggio, dopo decenni di incertezze, tentennamenti, contrasti giurisprudenziali, vuoti normativi, inettitudine del legislatore, di alzare - anche se con il contagocce - l’asticella delle libertà in questa delicata materia.
Libertà si fa per dire, perché restano in vigore e sono sempre dietro l’angolo tutte le sanzioni amministrative previste dell’art. 75 DPR 309/90 per chi, avendo coltivato per uso personale, viene poi colto in possesso della sostanza. Della pronuncia ne avevamo già dato notizia (https://droghe.aduc.it/notizia/cannabis+coltivazione+domestica+non+reato_136546.php), adesso ci sono le motivazioni complete, che chiariscono alcuni punti, ma mettendo paletti rigorosissimi alla nuova area di irrilevanza penale del fatto. In sostanza, i giudici si sono ancora una volta fatti carico, a causa dell’incapacità del Parlamento di operare scelte chiare su diritti e libertà degli individui, di un ruolo di vera e propria supplenza legislativa, andando a delineare, con quella che in materia costituzionale si chiamerebbe sentenza additiva, i confini del penalmente irrilevante. Ma facciamo un passo indietro e vediamo, molto sinteticamente, come si è arrivati a questo risultato. Fino ad oggi, la giurisprudenza maggioritaria, anche con due pronunce gemelle a Sezioni Unite (Di Salvia e Valletta del 2006) e in linea con quanto già precedentemente affermato dalla Corte Costituzionale, aveva stabilito che costituisce condotta penalmente rilevante qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche quando sia realizzata per la destinazione del prodotto ad uso esclusivamente personale, con l'unico limite del reato impossibile per inidoneità della condotta di cui all'art. 49 c.p., ravvisabile nelle ipotesi in cui le piante coltivate non consentano di ricavare sostanza stupefacente in grado di produrre alcun effetto drogante, da accertare caso per caso e comunque non esclusa dal mancato compimento del processo di maturazione delle piante. La Corte Costituzionale dal canto suo se ne era elegantemente lavata le mani ritenendo non irragionevole una previsione legislativa che assuma una presunzione di pericolo della condotta di coltivazione, circoscrivendo il trattamento più favorevole riservato all’uso personale di cui all’art. 75 DPR 309/90 (sanzioni amministrative) alla sole condotte di detenzione, cessione, importazione, esportazione etc., ma non a quella di coltivazione. Tra gli argomenti più utilizzati per sostenere la maggior pericolosità della condotta della coltivazione rispetto a tutte le altre condotte, ma con effetti a volte paradossali e contraddittori, vi era quello della “potenziale idoneità della coltivazione ad incrementare il mercato degli stupefacenti”. Le ultime Sezioni Unite intervengono in questo quadro frammentato ribadendo a chiare lettere, da un lato: • la correttezza della distinzione tra coltivazione/produzione e tutte le altre condotte e legittima l’anticipazione della soglia di tutela rappresentata dalla punibilità di ogni forma di coltivazione per la più spiccata pericolosità della coltivazione rispetto alla maggior parte delle altre condotte indicate dall’art. 73 DPR 309/90 perché destinata ad accrescere indiscriminatamente i quantitativi di stupefacente sul mercato; • l’indicazione della salute come unico bene giuridico tutelato dalle norme in questione (e non più la sicurezza, l’ordine pubblico, la salvaguardia delle giovani generazioni!) • che il reato di coltivazione è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, essendo sufficiente la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente. Nulla, dunque, sembrerebbe cambiato rispetto al passato, senonché, ad un certo punto della motivazione, si apre del tutto inaspettatamente uno spiraglio e viene introdotta una nuova distinzione tra coltivazione tecnico-agraria e coltivazione domestica di minime dimensioni, arrivando a ritenere quest’ultima intrinsecamente non idonea a ledere o a mettere in pericolo il bene giuridico salute - e quindi penalmente irrilevante - quando per: • la minima dimensione della coltivazione; • il suo svolgimento in forma domestica e non industriale; • le rudimentali tecniche utilizzate; • lo scarso numero di piante; • il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile; • la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell'ambito del mercato degli stupefacenti, essa appare destinata in via esclusiva all'uso personale del coltivatore. Nulla di più ci dicono le Sezioni Unite e, a ben vedere, non poteva essere diversamente, nell’inerzia di un legislatore immobile. Se pure si tratta di una pronuncia tanto attesa per molti piccoli aspiranti coltivatori domestici, essa, a ben vedere, non riuscirà, per la mancata indicazione di criteri univoci ed oggettivi, a mettere fine a quell’incertezza applicativa che si riscontra quotidianamente nella prassi giudiziaria e di polizia, quando si tratta di distinguere tra uso personale e destinazione a terzi. L’ennesima sconfitta per il principio di certezza del diritto, caposaldo di ogni convivenza civile ed ordinata.
Adriano Saldarelli, legale, consulente Aduc