Diritti della persona. Cassazione, la coppia di mamme gay non può riconoscere in Italia il neonato. Il caso di due donne di Treviso che si erano recate all’estero per fare la fecondazione assistita Niente riconoscimento per la coppia di mamme gay del figlio concepito all’estero con la fecondazione assistita ma nato in Italia. Lo ha stabilito la Corte di cassazione che, con la sentenza n. 7668 del 3 aprile 2020, ha respinto il ricorso di due donne, una genitrice naturale e l’altra genitrice intenzionale, che chiedevano il riconoscimento con la doppia maternità della bimba concepita con fecondazione assistita in Spagna ma nata a Venezia. Con una motivazione destinata ad accendere un aspro dibattito, gli Ermellini hanno fatto una netta distinzione fra l’adozione di un bimbo di una coppia gay e il riconoscimento dopo la PMA. Il primo caso, possibile nel Belpaese, il secondo, contrario alle norme e all’ordine pubblico. Ma non solo. Ad avviso del Supremo collegio la decisione presa non striderebbe neppure con la Carta fondamentale e le indicazioni fornite negli ultimi anni dalla stessa Corte costituzionale. Inutile per la difesa insistere sul fatto che ormai da tempo la giurisprudenza ha sdoganato le adozioni gay. Per i giudici vi è infatti una differenza essenziale tra l’adozione e la PMA. La prima presuppone l’esistenza in vita dell’adottando: essa non serve per dare un figlio a una coppia, ma precipuamente per dare una famiglia al minore che ne è privo. Nel caso dell’adozione, dunque, il minore è già nato ed emerge come specialmente meritevole di tutela l’interesse dello stesso a mantenere relazioni affettive già di fatto instaurate e consolidate: interesse che va verificato in concreto. Al contrario la PMA, serve a dare un figlio non ancora venuto ad esistenza a una coppia (a un singolo), realizzandone le aspirazioni genitoriali. Il bambino, quindi, deve ancora nascere: non è, perciò, irragionevole che il legislatore si preoccupi di garantirgli quelle che, secondo la sua valutazione e alla luce degli apprezzamenti correnti nella comunità sociale, appaiono, in astratto, come le migliori condizioni di partenza».Per la Cassazione, evidenzia Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, non era dunque pertinente questo confronto, sul quale la difesa ha insistito nel ricorso, alla nozione ristretta di ordine pubblico, essendo l’atto di nascita che si chiede di rettificare formato in Italia, dove la bambina è nata, e non rilevando che la pratica fecondativa medicalmente assistita sia avvenuta all’estero.