Gallarate. Eutanasia: la morte “dolce” o “amara”?
L’iniziativa a favore dell’eutanasia pone una domanda molto netta alla società intera: se soffri è meglio eliminarti o aiutarti? Siamo ad un bivio: cultura della morte e cultura della vita. Tu, noi da che parte stiamo?
Riceviamo e pubblichiamo
Davide Bianchi, Coordinatore cittadino Popolo della Famiglia - Gallarate
L’associazione Luca Coscioni e i radicali hanno già raccolto oltre 750.000 firme per il referendum che dovrebbe abrogare parzialmente il reato di omicidio del consenziente. Primo passo per legalizzare la “dolce morte”.
Ci pare lapalissiano che l’uomo non sia padrone della sua vita: dal primo istante in cui respira, tutte le mattine quando si sveglia, passando attraverso ogni battito del cuore (muscolo involontario) o la crescita (involontaria) dei capelli, fino ad arrivare al dolore che procura la sua morte ai congiunti.
Viviamo però in una cultura che vuole dimenticare questa ordinaria dipendenza, e che afferma ideologicamente (cioè senza basi reali, ma con un costruito ragionamento - neanche troppo logico) l’illimitatezza dell’uomo. Come la afferma? Cancellando i segni di questo limite: per cui, ad esempio, non si parla più di morte, ma di addio, ultimo viaggio, arrivederci, e così via. Questo, ed altro, come l'occultamento della malattia o della disabilità, ci rende disumani, cioè ci allontana dalla funzione naturale che abbiamo: quella di prenderci cura di noi stessi e degli altri.
Ricordo ancora con stupore quando scoprii, grazie ad un amico medico, che gli ospedali, nel Medioevo, nacquero come luoghi di accompagnamento alla morte, anche perché le cure erano limitate rispetto ad oggi: un gesto, questo, di grande umanità, perché fare compagnia nel momento della morte è una delle forme più alte di cura della persona. Lo abbiamo sperimentato in negativo in questo tempo, in cui tanti sono morti in ospedale senza il conforto dei propri cari.
Ma è proprio questa compagnia in punto di morte che lo Stato dovrebbe sostenere ed incentivare, con le cure palliative (senza accanimento) e le terapie del dolore, perché ogni esistenza, anche la più travagliata, ha un valore.
Questo non significa condannare chi vive un’esperienza di dolore e preferirebbe morire, o chi vive dovendo assistere un familiare giorno e notte, ed è stanco, e non riesce più ad andare avanti. Ma non significa neanche avallare con una legge il rifiuto di ciò che non è nostro: la vita.
La depenalizzazione del reato di omicidio del consenziente risulta di fatto essere l’apertura verso l’omicidio, chiamiamolo con il giusto nome: significa dare il diritto a qualcuno di uccidere un altro uomo.
Crollano allora tutte le battaglie contro la pena di morte, contro la violenza sulle donne, contro le discriminazioni, perché se togliamo valore alla vita, non ci sarà più freno a ciò che potrà accadere. Lo abbiamo visto: non occorre infatti ricordare gli orrori dei totalitarismo nazista, durante il quale l’eugenetica era in gran voga, spinta dal concetto di razza pura e di "vita indegna di essere vissuta", cioè quella dei malati e dei disabili.
Viviamo in una società strana, che rivendica il diritto di tutti tranne di chi crea problemi: i malati, i poveri, tutti quelli che sono di ostacolo alla quiete dell'individuo. E questo genera disperazione, mancanza di speranza, per cui davanti ai problemi ci si sente soli, non si crede più che l’aiuto arriverà; e allora si rinuncia al figlio e lo si abortisce, si rinuncia alla vita perché troppo dolorosa e si chiede la morte.
Dare il là a questa mentalità significa certamente poi sconfinare, e avverrà che prima i malati cronici nel fisico o nella psiche vorranno togliersi la vita, poi coloro che sono depressi a causa di un periodo nero, poi chi non si rassegna ad un fallimento... Chi stabilirà la soglia del dolore oltre la quale è concepibile l’eutanasia? Certamente ognuno potrà pensare che il proprio dolore sia insopportabile, perchè è naturale che sia così: e quindi?
NO! diciamo NO!
La strada non è l’eutanasia, non è eliminare il malato per eliminare il dolore (e per risparmiare sui posti letto ospedalieri): la strada è spendere più risorse a favore della ricerca sulle cure e sull'assistenza ai malati e alle loro famiglie.
L’uomo è il fine, non è una macchina al servizio del potere.